Il massacro
Fumo, urla, rullare di tamburi, suoni di timpani, assordante fracasso di spari, cannonate, clangore di mazze, scudi, spade e giavellotti, fischi di frecce, confusione, fuoco e sangue tanto sangue che scorre a fiumi. Il mare si tinge di rosso, disseminato da migliaia tra cadaveri e feriti, soldati annegati, relitti di navi squarciate e bruciate, turbanti e giubbe, uomini urlanti. Un massacro.
Così doveva apparire quel breve tratto di mare sulle coste della Grecia, a Lepanto il 7 ottobre del 1571 quando centinaia di imbarcazioni si fronteggiano in una delle battaglie navali più feroci e tragiche della storia.
Una battaglia che si era consumata in poche ore, in cui il mondo cristiano ha la meglio sui turchi infedeli. Così ci viene tramandata questa battaglia nei cicli pittorici a venire, così il potere la vuole leggere: la vittoria cristiana contro i musulmani.
Le radici del conflitto e la Lega Santa
Per la prima volta il mondo cristiano, nonostante odi e rivalità, si ricompatta nella Lega Santa con il Papato, la Repubblica Veneta e la Spagna inviando soldati, navi armate e denaro, tanto denaro per impedire al sultano di conquistare le isole del Mediterraneo orientale.
Da anni ormai i turchi si stavano impossessando delle isole della Serenissima, sedi di mercanti e di traffici con l’oriente. Per Venezia era arrivato il momento di fermare queste conquiste in quanto mettevano in gioco anche la sua economia e potenza. Ora l’Impero Ottomano reclamava Cipro, un’isola che si trovava a ben 2000 chilometri di distanza. Cipro era stata attaccata nel 1570 ed era sotto assedio. Ma la flotta veneziana non arriva a tempo, nell’Adriatico viene colpita dal tifo, il personale è decimato e c’è bisogno di altri uomini. Quando arriva, anche perché aspetta tutte le altre navi che si erano riunite a Messina grazie all’intervento del Papa che era riuscito nel suo intento di unire il mondo cristiano, è troppo tardi. Non può che vendicarne la disfatta: Famagosta aveva ceduto, i musulmani erano riusciti a conquistarla dopo circa un anno di assedio. La disfatta era stata disastrosa. Infatti i turchi, dopo avere garantito l’incolumità del rientro a Venezia per i sopravvissuti, quando già questi erano imbarcati, rompono l’accordo per una lite tra il Pascià e il rettore della città Marcantonio Bragadin. I veneziani vengono imprigionati sulle galee, i capitani decapitati e Bragadin, dopo essere stato selvaggiamente torturato, è scorticato vivo e la sua pelle, riempita di paglia, innalzata sulla galea del Pascià e portata a Costantinopoli suscitando l’ira dello stesso sultano.
La flotta musulmana ripara poi all’imbocco del Golfo di Patrasso e sarà poco distante da qui che le due flotte si fronteggeranno.
La rappresentazione della Battaglia nel Palazzo Ducale
La vittoria di Lepanto diventa una notizia che corre veloce in Europa e viene rappresentata ovunque, soprattutto nel luogo dove tutto si decide, il centro esecutivo e governativo della città lagunare, simbolo dello sfarzo, della ricchezza e del potere che la Repubblica Veneta incarna da secoli: il palazzo Ducale.
Là dove ha la sede il Governo e il Doge, la carica più alta dello stato, la sua dimora e là dove si amministra la giustizia. Le sale del Palazzo sono letteralmente ricoperte di tele per celebrare se stessi ed esaltare le proprie vittorie ricordando i propri governanti.
In una di queste immense sale, la Sala dello Scrutinio, laddove si tenevano gli scrutini, ricostruita dopo aver subito un devastante incendio nel 1577/78, furono riprodotte le grandi vittorie navali della Repubblica. Tra queste vi è la tela di La battaglia di Lepanto di Andrea Vicentino,del 1571, che sostituisce quella del Tintoretto andata persa nell’incendio.
Una tela di grandi dimensioni in cui si rappresenta l’intera battaglia, con scontri e abbordaggi tra la navi di Don Giovanni d’Austria, capo indiscusso della spedizione cristiana e il comandante turco Alì Pascia, che finirà decapitato e la sua testa esposta sull’albero maestro. Un quadro affollato di giannizzeri e soldati, quasi il mare non si vede, solo galee, remi e tanti uomini in combattimento con archibugi spianati e tanti che cadono in mare. È tutto un intreccio in movimento. Sulla sinistra ben visibile c’è una figura che si erge in piedi con un turbante biancoe dall’altro il Capitano Sebastiano Venier con il braccio alzato in segno di sfida.
La scena è epica e nello stesso tempo ipnotica. Una miriade di vessilli e bandiere, uno sfondo di cielo cupo con volute di fumo grigio, un affollamento di alberi maestri… in primo piano questi lunghissimi remi che sembrano gli unici a dare luce, e su di essi quasi in primo piano un soldato veneziano bardato con corazza che brandisce una spada davanti ad un uomo con turbante e scudo. Un’infinità di altre piccole scene molto realistiche, mentre sullo sfondo si avvicinano grandi nuvoloni. Uomini che si gettano a mare, vengono respinti e trafitti da spade. Sono attimi concitati, in cui tutto può succedere… una teatralità che pervade e coinvolge. Nella tela si percepisce fortemente l’influenza del Tintoretto con la composizione diagonale che aumenta anche l’emotività dello spettatore.
Molto diversa la rappresentazione simbolica di Paolo Veronese, detto il Caliari, che si ammira nella sala del Collegio dove il Doge riceveva gli ambasciatori, che si trasforma in allegoria. Gesù Cristo, con la sua schiera di angeli, benedice il Doge Sebastiano Venier, inginocchiato con un mantello rosso. Davanti a lui Santa Giustina, che Venezia elesse a patrona di tutti i suoi domini perché la vittoria avvenne nel giorno a lei dedicato, rappresentata con la palma del martirio e il pugnale in mano. Dietro al Doge il comandante Agostino Barbarigo, che nella battaglia perse la vita.
La donna di bianco vestita sulla sinistra regge una coppa che rappresenta la fede, poiché la battaglia era stata contro gli infedeli, mentre quella vestita con raffinatezza che regge il corno ducale sta per Venezia. Sullo sfondo una moltitudine di navi. Ai cristiani arride la vittoria perché Cristo benedicente è con loro!
Anche nelle Gallerie dell’Accademia troviamo un’altra opera eseguita dalla bottega del Veronese su disegno del maestro, acquisita a seguito delle soppressioni napoleoniche del 1812, proveniente da una chiesa di Murano. Qui in particolare si gioca sul tema luci e ombre e si pone l’accento sul ruolo avuto da Venezia rispetto agli altri due suoi alleati. Le navi veneziane sono illuminate da raggi di sole che allegoricamente mostrano il favore divino, mentre le altre sono oppresse da ombre scure. Ben visibili gli stendardi rossi con il leone di Venezia. Nella parte alta della tela sono rappresentati i santi protettori Giustina e Marco per Venezia, stavolta affiancati da san Pietro (Stato Pontificio) e san Giacomo per la Spagna (rappresentati ciascuno con i suoi attributi), mentre Venezia diventa la donna vestita di bianco: tutti si genuflettono verso la Vergine del Rosario e la sua schiera di angeli. Un angelo sulla destra è ritratto nell’atto di scagliare saette.
La battaglia di Lepanto in Riviera
Anche nelle province arriva l’eco e la notizia di questa vittoria. Per prima cosa perché Venezia aveva chiesto a tutti i suoi domini di parteciparvi con uomini e mezzi. Anche Salò e la Riviera si mobilitano e, nel loro piccolo, danno il loro contributo fornendo cento fanti spesati per tutta la durata della guerra. In realtà, lo pagano soltanto per l’anno 1570 facendoselo poi togliere nel 1571, allorché sono gravati da Venezia di sussidi straordinari. Brescia offre un intero corpo di fanteria, ben mille uomini equipaggiati di tutto punto e spesati per sei mesi, al comando di ufficiali da eleggere fra la nobiltà bresciana.
Per avere contribuito all’impresa i salodiani nel ‘700 saranno ricompensati dalla Repubblica Veneta con il bronzo dei cannoni turchi sottratti durante la battaglia di Lepanto, con il quale forgiarono dei candelabri che si trovano ancor oggi davanti all’ancona nel Duomo di Salò e un crocefisso (non esposto).
Pio V istituisce la festa il 7 ottobre sotto il titolo di S. Maria della Vittoria e due anni dopo Gregorio XIII la conferma, mutandone il nome in quello di festa del S. Rosario. La vittoria è attribuita alla SS. Vergine poiché, mentre a Lepanto si combatte, in tutta la cristianità si recita il Rosario.
La pala dei Santi San Marco e Giustina dell'Aliense a Salò
Insomma questa grande produttività di immagini pare in qualche modo essere un’azione di marketing come la definiremmo noi oggi o, come la definisce il Prof. Barbero, l’Instagram di quei tempi. Precursori dunque di autocelebrazione che dilaga attraverso le opere d’arte degli artisti più quotati e amati del tempo e delle loro botteghe.
Nel Duomo di Salò tutto ciò è visibile nell’altare dedicato a San Marco, il secondo entrando sulla sinistra nel Lapala dei Santi Marco e Giustina di Antonio Vassillacchi del 1602, opera donata dal provveditore veneto Angelo Gradenigo, il cui stemma compare anche nell’opera nell’angolo inferiore destro (quattro gradini bianchi su sfondo rosso). In alto sono rappresentati Marco e Giustina e l’angelo con un cartiglio mentre sullo sfondo imperversa la battaglia di Lepanto.
L’autore, detto l’Aliense, che in latino significa stranieroper le sue origini greche, fu l’artista che aiutò Palma il Giovane nella realizzazione dei grandi teleri del presbiterio, sopra l’organo e degli affreschi della cupola. L’Aliense, a dispetto del soprannome, trascorse la sua vita a Venezia e imparò nella bottega del Veronese. Fu un pittore molto noto ed apprezzato a Venezia e lavorò moltissimo per il Palazzo Ducale dopo l’incendio del 1577.
La pace con i Turchi del 1573
Pubblicazioni, libri, pamphlet, arazzi, affreschi e altre tele continueranno a celebrare la vittoria sempre e solo come la battaglia tra due civiltà: nella sala Regia del Vaticano, a Palazzo del Principe, a Palazzo Spada e ancora in Spagna a Siviglia solo per citarne alcune.
Anche nell’ottobre del 2021 si è celebrato la ricorrenza della battaglia avvenuta ben 450 anni fa. Giova però ricordare che la sua importanza è perlopiù psicologica, dato che i turchi sono stati per decenni in piena espansione territoriale e hanno precedentemente vinto tutte le principali battaglie contro i cristiani d’oriente.
In realtà, la tanto decantata vittoria dell’alleanza cristiana non segna realmente una vera e propria svolta nel processo di contenimento dell’espansionismo turco. Già nel 1573 i Veneziani si riappacificheranno siglando un accordo secondo cui rinunciavano a Cipro e a Sopotò ed in più pagavano per tenersi Zante e versavano anche un indennizzo di guerra. Gli ottomani infatti riescono già nel periodo successivo a incrementare i propri domini, strappando ai veneziani, alcune isole, come Creta (al tempo Candia). Anche l’Impero Ottomano in ogni caso risente e riflette una fase di declino, che coinvolge all’epoca tutti i Paesi affacciati nel bacino del Mediterraneo in seguito allo spostamento verso le rotte oceaniche dei grandi traffici internazionali.
Altai dei Wu Ming
In ogni caso rimane sempre uno stretto legame tra il mondo d’Oriente e il mondo veneziano, culture che si fondono e popoli che si uniscono nonostante le differenze. Anche i romanzi storici possono aiutarci a leggere meglio fatti così lontani com’è il caso di Altaidei Wu Ming.
Attraverso personaggi fittizi (il protagonista) e realmente esistiti si narra la storia partendo dall’enorme incendio scoppiato all’Arsenale di Venezia, che nasconde i segreti della potenza e che sarà uno dei motivi che contribuirà alla vittoria. I veneziani infatti armano delle navi molto grosse e pesanti, le galeazze, con cannoni che possono sparare anche dalle fiancate che saranno determinanti per lo svolgimento della battaglia. Così il protagonista incontrapersonaggi veri: Yossef Nasi, Reyna Nasi, David Gomez, Ralph Fitch, Mehmet Sokollu, Solomon Ashkenazi, Lala Mustafa Pasha, Marcantonio Bragadin e sarà “nella tenda insieme a Lala Mustafa e Bragadin quando, dopo la resa di Famagosta, accade l’irreparabile.” Senza voler dare nessun giudizio, ne consiglio la lettura perché la realtà storica è sempre più complessa e sfaccettata di come viene riportata.