Nel passato devastanti epidemie e pandemie hanno decimato la popolazione, ma il mondo occidentale e industrializzato se ne è dimenticato. Anche le ultime epidemie, come l’Ebola e la Sars, che hanno toccato l’Africa e l’Asia, da noi hanno avuto poca eco.
Eppure hanno sempre fatto parte della vita dei nostri avi anche nel secolo scorso. Tra il 1918 e il 1920 la temibile influenza spagnola sterminò dai 50 ai 100 milioni di persone in tutto il mondo su di una popolazione di due miliardi. Non fece sconti a nessuno: neanche a giovani precedentemente sani. Purtroppo a quei tempi pesava un passato di guerra, di carestia, malnutrizione e scarsa igiene che contribuì a rendere letale questa influenza.
Ora, all’alba del 2020, siamo noi a renderci conto che il progresso non è bastato a renderci meno vulnerabili dalla pandemia in corso e che in un attimo tutte le nostre certezze possono sparire e la nostra vita esserne segnata per sempre.
In questi giorni ho pensato spesso a quello che hanno potuto vivere i nostri antenati, che certo vivevano in condizioni igieniche molto più precarie delle nostre, con una mancanza quasi totale di accesso alle informazioni. Immagino l’incubo di morbi come la peste che per secoli è ritornata come un appuntamento fisso andandosi a sommare a condizioni di vita talvolta spesso al limite della sopravvivenza, tra fame e miseria.
Nel capolavoro manzoniano (di cui tutti noi per ricordi scolastici abbiamo una vaga reminiscenza) ci viene descritta in modo sapiente e scioccante l’epidemia del 1630 che colpì la nostra penisola e si portò via quasi la metà della popolazione.
Anche qui sul lago di Garda nella zona della Riviera, è documentato che l’epidemia pestilenziale, già comparsa nel 1629, ne aveva seguite altre precedenti a partire dal 1300 e poi a seguire nel 1428, 1433, 1567 e 1576. Era quello il tempo in cui dominava la Repubblica di Venezia (1427-1797) che dovette imporre spesso severe misure di restrizione per la popolazione e si dovette organizzare per potere aiutare a curare i malati separandoli dalla comunità per continuare a garantire i suoi traffici mercantili. Per questo sorgevano i lazzaretti, una sorta di ospedale dove venivano ricoverati e curati i malati. In più, in quei tempi, anche l’esempio, il coraggio e il rigore dei santi venivano usati come esempio per ribadire il sacrificio e la responsabilità individuale nei confronti della comunità.
In effetti alla popolazione in quei tempi non restava molto altro che affidarsi alla religione e alle preghiere verso uno dei tanti santi che era stato aggiunto alla pletora di quelli già esistenti, il Santo reputato il protettore degli appestati: San Rocco. Fulgido esempio di responsabilità ed abnegazione verso i suoi simili, come narra la sua storia. San Rocco, il protettore di appestati e pellegrini, non a caso una delle figure più rappresentate nei dipinti a partire dal XV secolo.
È facilmente riconoscibile per la piaga nella gamba, il bastone da pellegrino ed il cane con il pane in bocca. Di origine francese, secondo la leggenda, al ritorno da un pellegrinaggio da Roma, dopo essersi dedicato a curare per anni gli ammalati rimase a sua volta contagiato dalla peste e si ritirò sulle rive del Po per morire in preghiera in solitudine. Ma un cagnolino, inviato da un nobile, gli portò cibo e arrecò conforto leccando il bubbone fino a guarirlo. Venne però imprigionato sulla via del ritorno e morì in prigione. Le sue spoglie pare siano state trasportate a Venezia nel 1485, dove si sviluppò un sentito culto, e sono conservate nella chiesa a lui dedicata. Proprio accanto sorge la Scuola Grande di San Rocco, una delle tante confraternite private che si occupava di curare gli indigenti e i malati. È certamente una tappa imperdibile durante una visita a Venezia per le fastose e mirabolanti sale dipinte dal Tintoretto e da molti altri importanti pittori veneziani.
È questa la ragione perché nella nostra penisola esistono più di tremila tra chiese e cappelle a lui dedicate, oltre che santelle collocate in contrade agli incroci per gli ingressi delle città. Spesso venivano costruite come atto di ringraziamento per essere scampati a grandi epidemie.
Così anche da noi sulle rive sul lago e nei borghi collinari e montani troviamo numerosi esempi, spesso edifici semplici, che ci ricordano la storia dei nostri antenati, con le loro paure, le loro speranze e soprattutto con i loro ringraziamenti.
Ricordo solo alcune di queste chiesette come in collina a Supiane, una deliziosa frazione di Gardone Riviera, a Limone sul Garda, una piccola chicca che domina la passeggiata oppure, se risaliamo in piccoli borghi collinari, a Liano immersa in un castagneto, o ancora nell’entroterra della Valvestino ne troviamo una a Turano e una a Moerna sul promontorio omonimo. Nel basso Garda c’è una chiesetta verso San Martino della Battaglia. Nel Trentino ne troviamo una nella frazione Campi di Riva e una a Nago, sorta proprio sui resti di un lazzaretto. Ci sono anche molte sagre e feste con processioni dedicate il sedici agosto come a Marniga di Brenzone, a Piovenzano, vicino a Pastrengo e in Valpolicella a S. Ambrogio nel veronese. Ancora oggi rimane un culto assai sentito, un santo festeggiato e omaggiato ogni anno.
In ogni caso è interessante notare anche quanto spesso venga rappresentato nei dipinti come si accennava poc’anzi. Pensando a grandi pale ricordo il polittico di San Rocco del Gandino del 1590, custodito nella Chiesa dei Santi Nazaro e Celso a Brescia, in cui vengono rappresentati undici episodi della sua vita. Ma normalmente viene rappresentato con altri santi, molto spesso con San Sebastiano, il santo sofferente trafitto da numerose frecce, uno dei più famosi martiri, come nell’opera del Moretto custodita nella Parrocchia di Santa Maria Annunziata di Salò intitolato Sant’Antonio, San Sebastiano, San Rocco e donatori.
A Lazise nella Chiesa Parrocchiale dei Santi Zenone e Martino il parroco, a seguito della pandemia Covid, ha riesumato dalla soffitta ed esposto la statua di San Rocco, proprio per richiedere la concessione di protezione e sostegno a malati ed emarginati.
A proposito di peste c’è una storia curiosa che si intreccia alla leggenda e ripete un antico rito di ringraziamento tramandato dai secoli. Ancora oggi la gente lo celebra accorrendo a Droane il 26 giugno, il giorno della festa di San Vigilio, in questo minuscolo borgo quasi pressoché disabitato in Alta Valvestino, l’entroterra montano del lago di Garda occidentale. La storia ci narra che in un anno imprecisato, tra il 1500 e il 1530, anche qui arrivò la peste. Al tempo Droane era un villaggio abitato da circa cento cinquanta persone, non poche per essere lassù in montagna. Fu una vera strage e solo due vecchiette sopravvissero. Purtroppo furono costrette ad andarsene e a chiedere aiuto e rifugio in altri villaggi. Una di loro morì durante il viaggio, mentre l’altra fu accolta ad Aer (una frazione di Tignale). Visse ancora a lungo e alla sua morte lasciò in eredità i suoi beni con una clausola: ogni anno avrebbero dovuto celebrare una messa in suo ricordo il 26 giugno distribuendo del pane, a quel tempo assai apprezzato. I suoi voleri sono stati rispettati ed ancora oggi a distanza di secoli il rito si ripete nel giorno di S. Vigilio, uno dei santi che hanno maggiormente contribuito alla diffusione del Cristianesimo sul lago.